Quattro anni fa, dalle colonne del “The New Yorker”, Ruth Ben-Ghiat lanciava una provocazione agli italiani a proprio agio, troppo per la docente di Storia e Studi italiani della New York University, con le architetture littorie. Simboli del fascismo e specchio della grandezza del Regime, quegli edifici e quei monumenti furono strumenti di meraviglia e di intimidazione, scenografie offerte ai rituali dittatoriali del Ventennio nell’ambito di una visione propagandistica del potere. Negli anni l’eredità architettonica fascista ha superato una soglia simbolica passando da memoria vivente a patrimonio storico. L’architettura fascista degli uffici postali, delle case popolari, dei quartieri residenziali, di città intere resiste in Italia come in Africa, piantata come un décor, probabilmente poco opportuno per il presente italiano e post-coloniale.

Dopo Vincere di Marco Bellocchio, nessuno aveva pensato di servirsi di quei luoghi come teatro e incarnazione dell’ascesa del fascismo e dell’installazione ‘fissa’ del regime. Almeno fino a Gianluca Jodice, che realizza un film sugli ultimi anni di Gabriele D’Annunzio, rinchiuso al Vittoriale e assediato dai fantasmi, quelli reali e quelli immateriali. Controllato a vista dai gerarchi fascisti, che non tollerano il suo dissenso, il poeta si oppone fermamente all’alleanza tra Hitler e Mussolini, profetizzando come Tiresia la sciagura. Nei labirinti del suo tempio approda Giovanni Comini, giovane federale incaricato di raccogliere informazioni su di lui. Ed è attraverso il suo sguardo che lo spettatore osserva D’Annunzio. È sempre il suo sguardo a posarsi sulle architetture e sulle colline di Gardone, a spostarsi tra Roma, Brescia e Nepi, a riempire gli spazi del film.

Il personaggio di Francesco Patanè, prima sicuro della sua fede e poi progressivamente intimidito dalla Storia al lavoro, galleggia tra gli edifici e l’estetica littoria, scivola lungo le linee di un neoclassicismo monumentale, tocca con mano (letteralmente) i marmi e i busti contro cui si scontra la parola lirica di D’Annunzio. L’autore filma gli edifici come templi abbandonati, consacrati a dèi caduti e dimenticati, restituisce ‘volume’ al linguaggio architettonico per definire il luogo e la forma del suo cinema.

Molti film italiani sono stati consacrati al periodo fascista e alla guerra, prendendo in considerazione soprattutto l’esperienza della resistenza o della vita quotidiana sotto il regime, pochi hanno spostato il punto di vista piazzandosi come Il processo di Verona di Carlo Lizzani e Vincere di Marco Bellocchio a lato del potere per indagare meglio i conflitti interni alle gerarchie fasciste. Se l’angolo di attacco di Lizzani è Edda Ciano, figlia di Benito Mussolini e consorte di Galeazzo Ciano, e quello di Bellocchio è Ida Dalser, sposa ripudiata di Benito Mussolini, Gianluca Jodice convoca Gabriele D’Annunzio, ‘soldato’ altresì rinnegato. Il Duce ‘sparisce’ dalle loro vite allo stesso modo, apparendo sullo schermo, agli spettatori come ai protagonisti, soltanto attraverso i busti, i ritratti ufficiali, le fotografie, le immagini di attualità proiettate al cinema e sui muri immobili. Superfici di marmo che la bella intuizione di Jodice penetra per evocare quello che ha di più abietto il fenomeno fascista.

Con piccoli tocchi progressivi, il décor imprime la narrazione e resuscita il clima e l’estetica dell’epoca. Dimorando nello spazio sacro dove si sarebbe manifestata la ‘grandezza dello spirito latino’, Il cattivo poeta si interessa al destino storico di D’Annunzio, chiuso in un di dentro barocco. Fuori si erge un mondo austero, semplificato e perpendicolare. Come usciti dal pennello metafisico di Giorgio de Chirico, gli edifici del Duce oscurano con le loro linee quadrate la ridondanza del Vittoriale. Resistono eterni, duri e in permanente tensione con noi che li guardiamo. Monoliti bianchi di una storia nera.